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a muso duro - Pierangelo Bertoliwn Artist
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Bisogna combattere la pochezza, la brutalità, la superbia …….. e puntare alla bellezza; nel pensiero ( anima), nell’azione ( rispetto) , generosità (amore)

 

 

 

il vuoto che si ha quando.....

                                                               

 

on step beyond- 

 

A Muso Duro


E adesso che farò, non so che dire
e ho freddo come quando stavo solo
ho sempre scritto i versi con la penna
non ordini precisi di lavoro.
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani
e quelli che rubavano un salario
i falsi che si fanno una carriera
con certe prestazioni fuori orario
Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Ho speso quattro secoli di vita
e ho fatto mille viaggi nei deserti
perché volevo dire ciò che penso
volevo andare avanti ad occhi aperti
adesso dovrei fare le canzoni
con i dosaggi esatti degli esperti
magari poi vestirmi come un fesso
per fare il deficiente nei concerti.
Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Non so se sono stato mai poeta
e non mi importa niente di saperlo
riempirò i bicchieri del mio vino
non so com’è però vi invito a berlo
e le masturbazioni celebrali
le lascio a chi è maturo al punto giusto
le mie canzoni voglio raccontarle
a chi sa masturbarsi per il gusto.
Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
E non so se avrò gli amici a farmi il coro
o se avrò soltanto volti sconosciuti
canterò le mie canzoni a tutti loro
e alla fine della strada
potrò dire che i miei giorni li ho vissuti.

 

 Pierangelo Bertoli

 

-FOIBAE- scultura in mosaico vetroso- base in petra calcare- 2006 -cm 45 x 23 circa- vista 4

FONTANELLA- tecnica a mosaico supporto cementizio- 2006-cm 57 X 23.

 

Mi piace spettinato camminare

il capo sulle spalle come un lume

e mi diverto a rischiarare

il vostro autunno senza piume.

Mi piace che mi grandini sul viso

la fitta sassaiola dell'ingiuria,

mi agguanto solo per sentirmi vivo

al guscio della mia capigliatura.

Ed in mente mi torna quello stagno

che le canne e il muschio hanno sommerso

ed i miei che non sanno di avere

un figlio che compone versi;

ma mi vogliono bene come ai campi

alla pelle ed alla pioggia di stagione,

raro sarà che chi mi offende

scampi alle punte del forcone.

Poveri genitori contadini,

certo siete invecchiati e ancor temete

il Signore del cielo e gli acquitrini,

genitori che mai non capirete

che oggi il vostro figliolo è diventato

il primo tra i poeti del Paese

e ora in scarpe verniciate

e col cilindro in testa egli cammina.

Ma sopravvive in lui la frenesia

di un vecchio mariuolo di campagna

e ad ogni insegna di macelleria

la vacca si inchina sua compagna.

E quando incontra un vetturino

gli torna in mente il suo concio natale

e vorrebbe la coda del ronzino

regger come strascico nuziale.

Voglio bene alla patria

benchè afflitta di tronchi rugginosi

m'è caro il grugno sporco dei suini

e i rospi all'ombra sospirosi.

Son malato di infanzia e di ricordi

e di freschi crepuscoli d'Aprile,

sembra quasi che l'acero si curvi

per riscaldarsi e poi dormire.

Dal nido di quell'albero, le uova

per rubare, salivo fino in cima

ma sarà la sua chioma sempre nuova

e dura la sua scorza come prima;

e tu mio caro amico vecchio cane,

fioco e cieco ti ha reso la vecchiaia

e giri a coda bassa nel cortile

ignaro delle porte dei granai.

Mi sono cari i miei furti di monello

quando rubavo in casa un po' di pane

e si mangiava come due fratelli

una briciola l'uomo ed una il cane.

Io non sono cambiato,

il cuore ed i pensieri son gli stessi,

sul tappeto magnifico dei versi

voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buona notte alla falce della luna

sì cheta mentre l'aria si fa bruna,

dalla finestra mia voglio gridare

contro il disco della luna.

La notte è così tersa,

qui forse anche morire non fa male,

che importa se il mio spirito è perverso

e dal mio dorso penzola un fanale.

O Pegaso decrepito e bonario,

il tuo galoppo è ora senza scopo,

giunsi come un maestro solitario

e non canto e celebro che i topi.

Dalla mia testa come uva matura

gocciola il folle vino delle chiome,

voglio essere una gialla velatura

gonfia verso un paese senza nome.

 

 Branduardi, Zappa

stele alchemica, h 165x12 cm  - cemento ,ferro, vetro dalles

 

 

 

 

 

 

L’aspetto più deprimente dell’opera d’arte è la vendita! ? Purtroppo bisogna farlo per  mangiare.

 

 

 

 

LA CONTINUA RICERCA DI UNA EMOZIONE VISIVA IN QUESTO MOMENTO STORICO FORTUNATO STRAORDINARIO FECONDO PER QUANTITÀ’ DI IMMAGINI  CHE CIRCOLANO E CHE POSSONO ESSERE VISTE- CI PONE DI FRONTE A RIFLESSIONI DI ORIGINALITÀ’ SEMPRE PIÙ CARENTI- QUINDI IL BUIO MENTALE, L’ANGOSCIA DELLA SUPERFICIALITÀ DEL CONTENUTO, MI ATTANAGLIA LA MENTE TOGLIENDOMI IL RESPIRO E FIDUCIA 

 

 

 

 

 

 

 

DIARIO DI UN VIAGGIATORE

La visita ad Acquaformosa

Domenica 22 novembre 2009

 

                Succede, qualche volta, di vivere emozioni inaspettate in luoghi sorprendentemente vicini.

Succede, qualche volta, che la sensazione di straniamento sia tanto maggiore quanto minore è la distanza geografica che separa i luoghi del nostro vivere quotidiano da quelli che un disegno imperscrutabile colloca nel cuore geloso della nostra terra.

                L’esperienza vissuta dal nostro gruppo domenica 22 novembre racconta questa piccola storia.

                Un bel gruppo di adulti di Azione Cattolica della nostra parrocchia – tanto numeroso da riempire un  pullman – alle otto del mattino (vabbè, qualcuno è arrivato in ritardo) si è ritrovato a Piazza Loreto per prendere parte ad una gita dal sapore antico: le vecchie gite dell’Azione Cattolica, colorate dalle canzoni e, prima di ogni cosa, dalla preghiera di partenza.

                Ci siamo messi in viaggio.

                La nebbia che alle luci dell’alba aveva accolto il risveglio dei cosentini che abitano nella parte bassa della città, alla partenza si era ormai diradata, salvo comparire dalle parti di Tarsia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La nebbia ha assunto la veste di una metafora lungo un viaggio compiuto su sentieri poco conosciuti; la nebbia era destinata a sciogliersi mano a mano che la strada si

inerpicava lungo le pendici del Pollino.

E così, superata Lungro, ci siamo lasciati alle spalle un mare di nuvole morbide e candide che una  mano invisibile aveva steso a custodia della vallata sottostante.                        

Sopra le nuvole un caldissimo sole di autunno ad illuminare una giornata limpida.

Siamo arrivati ad Acquaformosa (all. 2) qualche minuto prima dell’orario fissato per l’inizio dell’Ufficio Divino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sotto lo sguardo incuriosito della gente del luogo,  una cinquantina di persone – bambini compresi – ha fatto ingresso nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come sempre succede quando si fanno le cose in fretta, non abbiamo fatto caso immediatamente alle particolarità della chiesa, preoccupati di trovare posto a sedere, di non far fare troppo chiasso ai bambini, di non disturbare i fedeli, in definitiva di immergersi in una realtà diversa.

Non ci abbiamo capito nulla, meglio dirlo subito.

Il rito greco-bizantino – al quale eravamo stati solo superficialmente preparati da Papas Lanza – ci è rimasto in larghissima misura incomprensibile nella sua intrinseca specificità: la lunga sequela di ingressi ed uscite dalla zona dell’altare,

 

le formule in greco cantato, le risposte dell’assemblea, i gesti del Diacono ci sono apparsi quasi del tutto oscuri.

                Sono rimaste però bene impresse alcune sensazioni.

                In primo luogo, il rispetto verso il sacro e il suo “senso”: è difficile riuscire a spiegare con le parole quella atmosfera antica nella quale si svolgeva la celebrazione, innervata da una liturgia integralmente cantata senza aiuto di strumenti.

Solo la voce fungeva essa stessa da accompagnamento, con un andamento latamente cantilenante, ma che poi ha assunto – almeno così sembrava – il rimo di un lunghissimo respiro.

                In questa dinamica dialogante il canto del Diacono trovava la sua complementare risposta nel canto dell’assemblea, in una simbiosi stupefacente quanto a precisione di tempi, corrispondenza di toni e note; sembrava che nessuno rimanesse estraneo o passivo alla celebrazione, ma che anzi l’intera assemblea facesse corpo unico nella distinzione dei ruoli e che la chiesa costituisse la cassa armonica della preghiera.

                Noi che a questa comunione eravamo necessariamente estranei, abbiamo vissuto la sensazione della esclusione.

Ci siamo sentiti stranieri: più era forte la volontà di partecipare, magari intuendo le risposte del Kyrie, tanto più forte era la sensazione di frustrazione per non riuscire ad entrare in quella comunità.

                Forse la stessa situazione di quanti approdano nella nostra terra senza conoscerne la lingua, desiderosi di integrarsi e inesorabilmente respinti: la stessa sensazione di non essere accolti.

                E noi eravamo nella nostra provincia, nella comune Chiesa cattolica.

                Mentre questi ed altri pensieri si affollavano nella mente, il canto si è interrotto e ha fatto irruzione il “parlato” in italiano: quando abbiamo finalmente potuto rispondere, ci siamo sentiti smarriti, quasi incapaci di parlare.

                Forse ci eravamo immersi in un'altra dimensione, forse eravamo rapiti dalla liturgia cantata: recitare il Credo è stato improvvisamente difficile.

                Poi la celebrazione ha ripreso il suo ritmo cantato, il respiro si è di nuovo disteso ed ha assunto il suo ritmo naturale.

                Il pane eucaristico, dolcissimo, ha unito tutti; la comunione era finalmente accessibile, visibile e compiuta.

                 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al termine della celebrazione, ci siamo seduti tra i banchi ed abbiamo  dato uno sguardo attento a ciò che ci aveva circondato.

                Grazie a Giuseppe Capparelli, vice-presidente del Settore Adulti dell’Azione Cattolica della Eparchia di Lungro, abbiamo finalmente capito dove eravamo finiti.

                Acquaformosa è un piccolo paese di nemmeno 1.200 anime che come uno scrigno custodisce al suo interno un autentico capolavoro: la chiesa di San Giovanni Battista (all. 3) è integralmente istoriata di mosaici  realizzati nell’arco di un ventennio e che coprono una superficie di circa 1.600 metri quadrati.

 

               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando abbiamo alzato gli occhi verso l’alto, ci siamo resi conto che non solo le pareti ma anche  tutta la volta era integralmente coperta da mosaici realizzati con tessere minuscole, sapientemente accostate l’una all’altra in un disegno mozzafiato.

 

                Ancora una volta le parole non bastano: illuminati dalla luce che penetrava dalle finestre, i mosaici hanno assunto una veste di bellezza prima passata inosservata; sarà stata anche l’emozione trasmessa da chi illustrava le scene rappresentate – in larga parte mutuate dalle icone della tradizione orientale – ma è parso che i mosaici si animassero e trasmettessero il senso vitale delle sacre scritture.

                Ogni immagine ha assunto quella forza simbolica ed educativa che pure era ben nota in epoca antica, quando le icone e le immagini sacre in genere venivano definite il “vangelo dei poveri” (all. 4).

                Pian piano si è fatta strada in noi la consapevolezza di essere di fronte a qualcosa di maestoso ed umile allo stesso tempo: una ricchezza di oro e decori inimmaginata, allo stesso tempo espressione della natura comunitaria di quel tesoro, consegnato all’intimità della comunità acquaformositana  dai suoi stessi figli.

               E tutto ciò in un contesto ancora geloso delle sue radici, della sua tradizione così anticonformista rispetto al secolo, orgogliosa del suo passato, integrata ma non omologata.

                Al termine della spiegazione sembrava che il tempo avesse improvvisamente operato una stasi, che avesse trovato un respiro di sosta, che quei cinquanta cittadini secolarizzati – e un poco nevrotici – avessero fatto esperienza della tradizione orientale in una dimensione che aveva dimenticato la sua collocazione storica ed aveva trovato una nicchia nell’eterna storia della ricerca di Dio, oggi come ieri.

                Quando, alla spicciolata, ci siamo allontanati da quella chiesa ci siamo sentiti tutti più ricchi, portati fuori dall’ordinario, spinti alla ricerca dell’assoluto (all. 1).

                Lungo il breve tragitto che ci ha condotto alla Scuola Materna dove le suore basiliane – e non brasiliane come qualcuno sperava e malignava – ci attendevano, lo scorrere del tempo sembrava finalmente rallentato. Complice la giornata festiva, i tempi si erano allungati, gli spazi aperti, il cuore disteso.

 

                La bellezza della vita ci è apparsa riconquistata.

                Ora non racconteremo del cibo, della sorridente accoglienza delle suore, dell’arrivo di Don Michele, del casotto fatto durante il pranzo, dei bambini che si sono “scialati” a giocare nell’erba senza controllo, dei volti di tutti noi un po’ rubizzi: questo ve lo potete immaginare.

                Vogliamo raccontarvi dell’esperienza lungo la strada del ritorno, quando, dopo aver visitato la cattedrale di Lungro – che Tonino ha fatto aprire per noi – abbiamo avuto la sensazione di galleggiare sulle nuvole: eravamo tutti più leggeri, meno legati alla terra, con la nebbia ai nostri piedi.

In questa nebbia abbiamo avuto la sensazione di essere tornati ad immergerci, scendendo verso la città.

Ma con una novità nel cuore.

La dolce e consolante consapevolezza che  oltre le nubi c’è un  sole che rende il mondo bellissimo.

 

 

 

                In allegato:

  1. Il  Discorso di Papa Benedetto XVI agli artisti sulla bellezza;

  2. Presentazione di Acquaformosa;

  3. Presentazione della Chiesa di San Giovanni Battista;

  4. I Mosaici della Chiesa di San Giovanni Battista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegato 1

Signori Cardinali,venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,illustri Artisti,Signore e Signori!

Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra "quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza". Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. "Noi abbiamo bisogno di voi - egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità" (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: "E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte" (Ibid., 314). In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di "ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti", e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica "rinascita" dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel "faccia a faccia", in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: "A voi tutti - egli proclamò solennemente - la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!" (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo" (Ibid.).

Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: "L’umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui". Gli fa eco il pittore Georges Braque: "L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere" (n. 3). E più avanti aggiunge: "In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione" (n. 10). E nella conclusione afferma: "La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente" (n. 16).

Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di "figure" – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare". La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: "In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa". Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio". Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte" (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: "L’arte ha bisogno della Chiesa?", sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel "grande codice" che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: "Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza" (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

Città del Vaticano, 21 novembre 2009

 

 

 

Allegato 2

Acquaformosa è un paese di origine albanese, sito a 756 metri sul livello del mare, in provincia di Cosenza. Sorge su un territorio, di 22,57 Kmq, contornato da boschi imponenti, dove scorrono acque limpidissime, da cui deriva il nome.  Il territorio di Acquaformosa si presenta in prevalenza collinare - montuoso, con punte altimetriche che vanno dai 500 ai 1500 metri s.l.m.L'area montana propriamente detta ricade quasi interamente nel cuore del Parco Nazionale del Pollino.

Il comprensorio di Acquaformosa confina ad ovest-nord-ovest con il territorio di San Donato di Ninea, confine segnato dal Fiume Grondo, ad est-nord-est confina con il territorio del Comune di Lungro, qui il confine è segnato dalle gole del Galatro a sud confina con il territorio del Comune di Altomonte.

Da Acquaformosa si può ammirare un panorama di impareggiabile bellezza, con un colpo d’occhio si domina la Piana di Sibari con l’arco di mare Jonio antistante, la Valle dell’Esaro, la catena del Pollino e le pendici settentrionali della Sila.

In queste terre giunsero, alla fine del XV° secolo, alcuni esuli albanesi, che dopo la morte del condottiero albanese Giorgio Castriota detto “Scanderbeg”, per evitare di diventare schiavi dei turchi, fuggirono dalla loro terra per cercare rifugio tra le popolazioni italiche.

Allora il territorio dove oggi è sita Acquaformosa, era di proprietà dei monaci cistercensi del Monastero di Santa Maria di San Leucio o di Acquaformosa.

Fu a loro che gli albanesi chiesero ospitalità. L’abate accolse la loro richiesta.

La prima prova che attesta la presenza degli albanesi nel territorio di Acquaformosa, è il documento “Capitolazioni degli albanesi di Acquaformosa col Monastero di Santa Maria” conservato nell’Archivio Vaticano nel codice Vaticano Latino n. 14.386 f 9 ss.

Correva l’anno del Signore 1501 quando alcuni albanesi con a capo Pellegrino Caparello, e l’abate commendatario del Monastero di Santa Maria di Acquaformosa firmarono l’atto costitutivo della nuova comunità e, nello stesso tempo, la fonte delle norme regolatrici dei rapporti tra gli albanesi e il monastero.

Dunque il 1501 è la prima data certa della presenza degli albanesi nel territorio badiale, ma quando arrivarono effettivamente in quelle terre non è dato sapere.

Alcuni storici fanno risalire la partenza degli albanesi dalla loro terra tra il 1476 e il 1478, è una data probabile ma non certa.

Nessuno azzarda una data per quanto riguarda l’arrivo degli albanesi nei territori del monastero.

È presumibile che tra la data di stanziamento e le “Capitolazioni” sia trascorso solo il breve tempo necessario ai monaci per conoscere i nuovi ospiti e agli albanesi per conoscere la lingua italiana volgare che si è impiegata nella stesura del documento.

Poco si sa degli albanesi che furono i primi abitanti di Acquaformosa: indirettamente si può dedurre che tra di essi ci fosse un sacerdote.

Infatti appartenevano alla Chiesa parrocchiale di Acquaformosa 8 codici greci che oggi sono custoditi nella Biblioteca del Monastero Esarchico di Grottaferrata.

Il primo luogo dove gli albanesi edificarono il loro casale fu la località chiamata “Arioso”. Ma il luogo prescelto, che oggi segna il confine tra i territori di Acquaformosa ed Altomonte, fu ben presto abbandonato; gli albanesi si spostarono e costruirono le loro abitazioni più vicino al Monastero.

I motivi che spinsero i primi abitanti di Acquaformosa a spostarsi da Arioso non sono certi, le ipotesi avanzate sono due.

La prima giustifica lo spostamento a causa dei numerosi serpenti che infestavano quella zona; la seconda lo giustifica per le difficoltà di approvvigionamento dell’acqua.

Lo spostamento in tutti i casi fu repentino, dato che già nel 1505 era in costruzione la Chiesa Matrice di San Giovanni Battista nel luogo dove tutt’oggi è ubicata.

In un primo tempo l’aggregato urbano di Acquaformosa era così ristretto da non essere considerato neppure casale di Altomonte. Solo dagli scritti del giureconsulto Giovanni Paolo Galterio, riguardanti gli statuti di Altomonte del dì 15 agosto 1602, viene nominato il casale di Acquaformosa, insieme a quelli di Lungro e di Firmo, come casali di Altomonte.

Verosimilmente le prime abitazioni furono costruite a ridosso del primo oratorio degli albanesi di Acquaformosa, la Chiesa della Concezione, edificata sin dai primissimi anni del 1500.

Casale di Altomonte fino all’inizio del 1800 Acquaformosa divenne Comune autonomo a seguito delle leggi francesi che riorganizzarono amministrativamente il vecchio regno borbonico.

Solo nel 1848, a seguito di numerosissime dispute legali il territorio di Acquaformosa assunse la consistenza che ancora oggi conserva.

La popolazione di Acquaformosa parla ancora l'avita lingua albanese, appartiene alla Chiesa Cattolica di rito bizantino - greco, custodisce usi e tradizioni portate molti secoli fa dalla terra natia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegato 3

La chiesa parrocchiale di Acquaformosa dedicata a San Giovanni Battista fu costruita dal 1500 al 1526 da profughi giunti dall’Albania, per concessione dell’Abate della duecentesca Abbazia  Cistercense  di  Santa  Maria  di Acquaformosa che li aveva benevolmente accolti nel suo territorio.

Dal 1939 è monumento nazionale, iscritta nell'elenco dello Stato, per il suo prezioso patrimonio artistico e religioso.

Cadente, fu demolita e ricostruita dalle fondamenta tra il 1936 ed il 1938, su progetto dell’Ing. Aldo Mainieri di Morano Calabro, ad opera del Ministero dei Lavori Pubblici, subendo una radicale trasformazione per poter rispondere più adeguatamente alle esigenze del Rito Bizantino. 

Tra il 1939 e il 1940 sono state realizzate le sacre icone dell’iconostasi, dal pittore romano Giovanbattista Conti, su tavole di legno con sfondo di oro zecchino.

Vi sono rappresentati i Santi: Atanasio, Nicola di Mira, Giovanni Crisostomo, Pietro, Giovanni Battista, Paolo, Basilio e Lucia.

Sopra la Porta Regale è rappresentata la Cena di Emmaus. Ai lati della stessa Porta sono rappresentati da una parte il Cristo, che reca in mano un cartiglio sul quale sta scritto: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò”, e dall’altra parte la Theotòkos con il braccio il Figlio che ha in mano un cartiglio su cui si legge: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli”.

Fanno parte dell’opera dello stesso artista anche i personaggi del cosiddetto gruppo calvario: Cristo in croce, sua Madre e l’evangelista Giovanni, opera realizzata negli anni 1966-67.

Nella chiesa di San Giovanni Battista sono evidenti elementi dell'architettura romanica a cui il progettista si è ispirato.

L'articolazione ritmica sia delle strutture di sostegno che di quelle sostenute, la complessa organizzazione delle masse e degli spazi che danno un senso di robustezza accentuata dalla presenza di lesene e contrafforti, fanno della chiesa matrice di Acquaformosa uno splendido esempio del romanico dell'Italia meridionale.

In questa chiesa si incontrano, fondendosi, i tipi e le forme occidentali ed il mondo greco.

La pianta si sviluppa in lunghezza con asse longitudinale, a tre livelli: navata – solea - vima.

Solidi pilastri rettangolari sostengono le spinte laterali degli archi a tutto sesto che separano la navata centrale dalle due laterali.

Un cordolo in cemento armato regge la volta a botte della navata centrale che viene divisa in due campate dall'arco trionfale.

Sul lato orientale della navata centrale vi è una parte sopraelevata, è il solea, che è il luogo della comunione dei fedeli, oltre il solea, diviso dall'iconostasi, che letteralmente significa luogo delle icone, su un piano ancora superiore si trova l'altare, dove si accede attraverso la Porta Regale, all'interno dell'altare si erge la tavola santa che, per mistica trasposizione, raffigura il Signore stesso.

La parete absidale è liscia e presenta al centro una bifora, è priva di catino. Il transetto separa il Vima dal resto della chiesa. Il braccio del transetto a nord è coperto da volta a botte e da l'accesso alla cripta, mentre nel braccio a sud si innalza il campanile.

La navata sinistra con soffitto piano è divisa in tre campate e culmina con il battistero, la parete esterna è finestrata con due monofore ad arco a tutto sesto strombate all'interno.

La navata destra simile alla sinistra termina con il transetto.

La facciata esterna presenta al centro l'ingresso preceduto dal protiro sopra il quale il rosone da luce alla navata centrale.

Sopra il rosone loggette ed archetti la rendono elegante ed animata, culmina con la classica forma romanica detta "a capanna".

Le lesene dividono il corpo centrale dai due laterali.

Il campanile a torre ottagonale culmina con la cupola coperta con elementi decorativi di manufatti in argilla dipinti con smalti policromi.

Negli anni ’50/’60 subì varie riparazioni a cura dell'Ufficio del Genio Civile di Cosenza; e negli anni ’70, ad opera del Ministero dei Beni Culturali, gli ultimi interventi, sul tetto e sul pavimento.

Nel 1989 è stato iniziato il ciclo iconografico a mosaico classico.

La rappresentazione musiva secondo il Concilio di Nicea porta sulla terra il cielo.

L'opera è continuata senza interruzioni ed è tuttora in corso.

È stato arricchito di iconografia musiva il 75% dell'intera superficie estendentesi nella navata centrale e le due navate laterali; non vi saranno spazi vuoti ma ogni centimetro quadrato sarà mosaico: le volte, le pareti, i pilastri, gli intradossi e gli estradossi degli archi, intarsi fino al piano del pavimento.

Una volta completata l'opera interesserà circa 2000 mq.  Le tessere in oro zecchino ricopriranno il 90% della superficie mosaicata, per il resto si è ricorso a tessere in smalto ed in marmo policromo.

L’aspetto del sacro tempio è ora cambiato di molto, il fedele o il visitatore si trova coinvolto dai grandi mosaici.

Si ha la sensazione, data l'armonia della chiesa e dei suoi mosaici, di trovarsi in una realtà diversa, dove l'immagine dell'invisibile trova forme accessibili.

Entrando dalla grande porta in bronzo, che riproduce fedelmente l'originale, con le aquile bicipiti simbolo dell'impero d'oriente, lo sguardo si posa sulla volta del solea dove domina la maestosa figura del Cristo Pantocrator, con fondo in oro e dai lati i simboli dei quattro evangelisti.

Nella parte absidale ed in particolare nella volta del Vima sono stati rappresentati l'Etimasia e, sulla parete la Platitèra. In basso,  sotto  la  cornice  policroma  vi  è  la  Comunione  degli Apostoli.  Questa  è  composta  da  un  altare  al  centro  della raffigurazione con Cristo rappresentato in maniera speculare sui due lati che dà la Comunione agli Apostoli che convergono verso di Lui.

Sotto la Comunione sono raffigurati  i Padri della Chiesa.

Essi sono Sant'Atanasio, San Giovanni Crisostomo, San Basilio, San Gregorio Teologo, San Cirillo d'Alessandria, San Nicola di Mira

La parete dell’Iconostasi è decorata sulla parte anteriore con motivi floreali e sulla parte posteriore sono stati collocati San Michele e San Gabriele. Al centro è raffigurato un Tetramorfo.

Nella parete del Solea è rappresentata la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor.

Di fronte la Trasfigurazione è raffigurato il Mandilion.

Nella parte  sottostante  sono  rappresentati  San  Biagio Vescovo  e  San Vincenzo Martire.

Sulla volta, al centro, è posto il Cristo Pantocrator e sui lati corti i simboli dei Quattro Evangelisti: il Toro rappresenta San Matteo, l'Uomo San Luca, l'Aquila San Giovanni ed il Leone San Marco.

L'Arco Trionfale è tutto decorato con motivi geometrici.

Proseguendo verso la navata centrale, in alto, sulla volta, sono state  raffigurate  sei  Feste  della  Chiesa:   l'Entrata  in Gerusalemme, l'Annunciazione, la Natività, la Crocifissione, il Battesimo e la Resurrezione.

Sulla parete sovrastante l'ingresso principale vi è il Cristo in Trono ed Angeli.

Nella navata laterale dedicata a San Giovanni Battista, Patrono della  Chiesa,  vi  è  la  rappresentazione  del  Battesimo  delle folle, la Decollazione ed il ballo di Salomè, ed al centro il Patrono.

Inoltre sono state realizzate le Porte Regali,  il Baldacchino dell'Altare, l'Iconostasi in marmo nella cappella di San Giovanni Battista e la Bifora posta sulla parete dell'Abside.

Le Porte Regali sono in bronzo galvanizzate in oro e  rappresentano l’Annunciazione;  il  Baldacchino  dell'Altare   posto  su  quattro colonne di marmo di Carrara bianco, è in rame galvanizzato in oro.

Tutta l'iconografia è eseguita nello stile tipico della Chiesa Bizantina. Osservando con attenzione emergono i colori molto luminosi e la varietà degli ornamenti. La chiesa è un luogo non solo di preghiera ma anche un luogo dove il fedele attraverso le sacre immagini che lo attorniano possa leggere vedere e ascoltare Dio incarnato.

Il ciclo iconografico musivo comprende la rappresentazione dell'intero arco dei misteri della salvezza dell'Antico e del Nuovo Testamento e si svolge secondo i canoni della Chiesa Bizantina che intende calare il cielo di Dio sulla terra degli uomini, secondo canoni severi per salvaguardare l'ortodossia della fede cristiana e la sublimità della Divinità manifestatasi all'umanità.

Non si tratta di una chiesa con mosaici, ma di una chiesa interamente mosaicata: di un corpus di arte sacra bizantina, una grande immensa “pinacoteca”.

I materiali sono tessere in oro, smalti e altri propri dell'arte musiva; l'originalità è dovuta anche al fatto che le figure musive non sono una copia, né una imitazione né una riproduzione di immagini esistenti altrove ma sono assolutamente originali.

Il corpo musivo complessivo della Chiesa di San Giovanni Battista di Acquaformosa può, senza esagerazione, dirsi un unicum nel mondo europeo per organicità, originalità, estensione delle aree.

In pieno XXI° secolo, in Acquaformosa, comunità italo - albanese di rito bizantino, si rinnovano i fasti dei maestri mosaicisti bizantini, arabi, persiani, di Venezia, Ravenna, Monreale, Cefalù, Palermo, di Chora, di Santa Sofia in Costantinopoli, Russia, Romania, Bulgaria.

 

 

 

Allegato 4

I mosaici della chiesa parrocchiale di  San Giovanni Battista di Acquaformosa

La parola "icona" deriva dal greco e significa immagine. I bizantini indicano con questo nome ogni raffigurazione del Cristo, della Madonna, dei Santi e di altri soggetti qualunque sia la tecnica e la materia usata.

Nel linguaggio comune si è soliti dire "dipingere una icona", in realtà, forti della tradizione teologica, ormai millenaria, dobbiamo dire "scrivere un'icona", perchè anch'essa è parola di Dio scritta con l'immagine mediante un linguaggio codificatosi nei secoli e per questo comprensibile nel suo significato più profondo.

In corrispondenza di uno "scrivere" c'è un "leggere" l'icona. Ognuno che si avvicina ad un'icona deve sforzarsi di leggerla, una indicazione valida per leggere un'icona è quella di aver chiaro il perchè qualcuno l'ha "scritta".

L'intendimento solito di chi "scrive icone" è quello di :

- testimoniare l'invisibile;

- sostenere la nostra fede e speranza;

- aiutarci a pregare;

- trasfigurarci nella carità.

Se ogni cristiano si avvicina alle sacre icone con questi intendimenti certamente non sarà rapito, solamente, dalla loro bellezza estetica.

Una fucina ove allenare il proprio spirito, in questo senso, è la chiesa di San Giovanni Battista di Acquaformosa.

Infatti dal 1989 un'idea di Padre Vincenzo Matrangolo, ispirato dallo Spirito, si sta realizzando.

Il maestro mosaicista di Acquaformosa, Biagio Capparelli, aiutato da discepoli anch'essi acquaformositani, ha dato avvio alla decorazione musiva della chiesa.

E' difficile che entrando in questa chiesa, non sfugga un'espressione di meraviglia per tanto splendore; ma una volta superato questo primo momento di rapimento per il visibile, si deve guardare l'icona con spirito contrito, come se si fosse davanti al rappresentato, all'invisibile.

San Basilio diceva: "l'onore che si attribuisce all'immagine trascorre sul prototipo", su colui o colei che sono rappresentati.

Fin dalla sua nomina a parroco della Parrocchia di San Giovanni Battista di Acquaformosa, avvenuta nel 1936, papàs Vincenzo Matrangolo ha iniziato ad intervenire sulla chiesa parrocchiale per renderla conforme ai canoni della tradizione bizantina.

Intervenendo dapprima su particolari limitati, come l’iconostasi, ma avendo come progetto finale quello di decorare l’intero tempio sacro. Per questo più volte ha incontrato grandi artisti sia greci che italiani. Le soluzioni tecniche prospettate non lo soddisfecero mai appieno.

Essendo Acquaformosa un paese montano gli sbalzi climatici possono arrecare gravi danni ad opere decorative, come gli affreschi. La soluzione più appropriata la diede un’artista di Acquaformosa stessa, Biagio Capparelli: il mosaico.

Le tessere del mosaico, smalto vetroso e marmo, reagiscono positivamente alle dilatazioni ed ai restringimenti cui i materiali vengono sottoposti dai mutevoli agenti atmosferici. Individuata tecnicamente la soluzione migliore occorreva procedere alla progettazione.

“Dipingere” un’icona bizantina non è applicazione semplice dell’estro artistico. “Dipingere” un’icona bizantina è innanzitutto conoscere i canoni che la governano, altrimenti si rischia di riprodurre fotograficamente immagini già esistenti, ed allora non è più creazione artistica, oppure, si “dipingono” immagini che non sono bizantine.

Attenersi ai canoni, codificati dal Concilio di Nicea del 787, significa seguire le indicazioni, le linee guida date dai padri conciliari ispirati dallo Spirito Santo e, successivamente, sedimentatesi nella tradizione millenaria della Chiesa.

Conscio di ciò Biagio Capparelli ha intrapreso un serio studio teologico, artistico ed esegetico. Infine ha studiato i mosaici bizantini esistenti ancora oggi in Italia: Monreale, Martorana, Cappella Palatina, Piazza Armerina, SS Cosmo e Damiano, San Marco e molti altri.

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